11 juin 2018

Carlo Michelstaedter

POESIE


Se camminando vado solitario
per campagne deserte e abbandonate
se parlo con gli amici, di risate
ebbri, e di vita,
 

se studio, o sogno, se lavoro o rido
o se uno slancio d'arte mi trasporta
se miro la natura ora risorta
a vita nuova,
 

Te sola, del mio cor dominatrice
te sola penso, a te freme ogni fibra
a te il pensiero unicamente vibra
a te adorata.
 

A te mi spinge con crescente furia
una forza che pria non m'era nota,
senza di te la vita mi par vuota
triste ed oscura.
 

Ogni energia latente in me si sveglia
all'appello possente dell'amore,
vorrei che tu vedessi entro al mio cuore
la fiamma ardente.
 

Vorrei levarmi verso l'infinito
etere e a lui gridar la mia passione,
vorrei comunicar la ribellione
all'universo.
 

Vorrei che la natura palpitasse
del palpito che l'animo mi scuote...
vorrei che nelle tue pupille immote
splendesse amore. -
 

Ma dimmi, perché sfuggi tu il mio sguardo
fanciulla? O tu non lo comprendi ancora
il fuoco che possente mi divora?...
e tu l'accendi...
 

Non trovo pace che se a te vicino:
io ti vorrei seguir per ogni dove
e bever l'aria che da te si muove
né mai lasciarti. -
 

 31 marzo 1905

 


* * *
 

Poiché il dolore l'animo m'infranse
per me non ebbe più la vita un fiore...
e pure inconscio iva cercando amore
l'animo offeso.
 

Ahi ti vidi e a te il pensier rivolsi
a te che pura sei siccome un giglio...
... Le lacrime mi sgorgano dal ciglio
invirilmente.
 

Oh mia fanciulla, oh tu non hai compreso
di quanto amore io t'ami. Ed un dolore
nuovo, più intenso mi attanaglia il cuore
che tu feristi.
 

Se m'ami Elsa a che mi fai soffrire?
Tu della vita mia unico raggio
tu che sola m'infondi quel coraggio
che mi fa vivo!
 

Lo sguardo mio non t'ha saputo dire
non t'han saputo dir le mie parole
quello che dice all'universo il sole,
amore! amore!?
 

 3 aprile 1905

 



 Alba. Il canto del gallo
 

Salve, o vita! dal cielo illuminato
dai primi raggi del sorgente sole
all'azzurra campagna!
 

Salve, o vita! potenza misteriosa
fiume selvaggio, poderoso eterno
ragione e forza a tutto l'universo
salve o superba!
 

Te nel silenzio gravido di suoni
te nel piano profondo o palpitante
cui nuovi germi agitano il seno
te nel canto lontano degli uccelli
nel frusciar delle nascenti piante;
te nell'astro che sorge trionfante
ed in fra muti sconsolati avelli
sento vibrare
E ribollir ti sento nel mio sangue
mentre il sole m'illumina la faccia
e dalle labbra mi prorompe il grido:
 

viva la vita!
 

 1° giugno 1905

 



 La notte
 

Tace la notte intorno a me solenne
le ore vanno e sfilan le memorie
siccome un nero e funebre convoglio.
 

Del cielo nelle oscurità remote
nell'ombra amica che con man soave
le grevi forme della chiesa lambe,
nell'ombra amica che gl'uomini culla
col lento canto della pace eterna
vedo di forme strane scatenarsi
una ridda veloce e affascinante
vedo la mente umana abbacinata
chinar la fronte...
 

Ma il mio pensiero innalzasi sdegnoso
e squarcia il manto della notte bruna
libero, e vola, -
vola alla luce pura trionfante
vola al sole del vero, dove i forti
stan combattendo l'immortale agone
cinti le terapie d'agili corone,
vola esultante.
 




 La scuola è finita!
 

È giunta l'ora del distacco, è giunta;
io vi lascio sedili riscaldati
aule sapienti portici affollati
ora e per sempre!
 

Ansie e battaglie e faticose veglie
liete sconfitte e facili vittorie
e voi quaderni carchi di memorie
io v'abbandono.
 

Libero sono dalla tirannia
d'ogni minuto; sono rotti i ceppi
che per lunghi anni rallentar non seppi.
Libero sono!
 

Libero, e innanzi a me s'apre la vita
con gli orizzonti vasti ed intentati
e coi premi lontani ed agognati
nei sogni antichi.
 

Freme nel petto l'animo convulso:
sete di gloria e sete di sapere
desiderio d'azione e di piacere
in me ribolle.
 

In un amplesso solo poderoso
vorrei legare a me tutta la terra
vincere il fato e la fortuna ch'erra
cieca nel mondo.
 

* * * 

Ma un brivido mi corre per le membra,
la vita è fredda e piena di sgomento,
triste isolato debole mi sento
vo' ritornare.
 

Vo' ritornare ai banchi della scuola
alla diuturna noia, alle catene
a quel fetore che facea sì bene,
ai professori.
 

Amici, or vedo quanto abbiam perduto;
della nostra esistenza, calda un'onda
nel buio del passato si sprofonda
inesorato.
 

Con quel legame che ci die' comuni
ore di gioia ed ore di sconforto
anche un periodo della vita è morto
in quest'istante.
 

Ma non dobbiam però chinar la fronte.
Col ferro in pugno verso l'ideale
ci batterem con animo leale!
In alto i cuori!
 

E se fra le battaglie della vita
saremo vinti forse, da lontano
ci volgeremo a stringerci la mano
... addio compagni!
 

 Gorizia, 25 giugno 1905
 



Sibila il legno nel camino antico
e par che tristi rimembranze chiami
mentre filtra sottil pei suoi forami
vena di fumo.
 

O caminetto antico quanto è triste
che nella nera bocca tua rimanga
la legna che non arde e par che pianga
di desiderio,
 

ma dal profondo della sua poltrona
socchiusi gli occhi, il biondo capo chino
stese le mani al fuoco del camino
Nadia ride.


 



I
 

Cade la pioggia triste senza posa
a stilla a stilla
e si dissolve. Trema
la luce d'ogni cosa. Ed ogni cosa
sembra che debba
nell'ombra densa dileguare e quasi
nebbia bianchiccia perdersi e morire
mentre filtri voluttuosamente
oltre i diafani fili di pioggia
come lame d'acciaio vibranti.
Così l'anima mia si discolora
e si dissolve indefinitamente
che fra le tenui spire l'universo
volle abbracciare.
Ahi! che svanita come nebbia bianca
nell'ombra folta della notte eterna
è la natura e l'anima smarrita
palpita e soffre orribilmente sola
sola e cerca l'oblio.
 

II
 

«Guardi dove cammina! o 'che 'gli è cieco?».
M'erutta in faccia con fetor di vino
un popolano dondolando l'anca.
In vasta curva costeggiando il fiume
tremola ancor la luce dei fanali
e l'Arno scorre sonnacchioso e grigio,
l'acque melmose.
Spicca dei colli ancor la massa oscura
e San Miniato avvolto nella nebbia
ombra nell'ombra, -
fiaccola rossa dai camini neri
batte nell'aria, e l'alito affannoso
ferve di vita.
E risponde dall'anima mia triste
un'ansiosa brama di vittoria
ed un bisogno amaro di carezze:
forza incosciente - fiaccola fumosa.
 

III
 

O vita, o vita ancor mi tieni, indarno
l'anima si divincola, ed indarno
cerca di penetrar il tuo mistero
cerca abbracciare in un amplesso immenso
ogni tuo aspetto. -
Amore e morte, l'universo e '1 nulla
necessità crudele della vita
tu mi rifiuti.
 

 Febbraio 1907

 



I
 

A che mi guardi fanciulla con gli occhi pieni di luce,
con gli occhi azzurri profondi ed al volto ti sale una fiamma?
Non ha sole la mia giovinezza, non conta gli anni il mio core
l'anima mia dolorosa non sa le primavere.
Fanciulla perché ti soffermi? perché t'avvicini al mio core?
perché o fanciulla l'avvolgi nel fuoco tuo giovanile?
Fanciulla è freddo il mio core, è freddo il mio core e lontano,
non sente l'alito ardente della tua giovane vita.
 

II
 

Quando pei blandi tramonti, per gli ampi meriggi infocati
sui pallidi volti sussurra amor violente lusinghe,
e quando maggio riarde il petto all'uomo che vive
il core mio tace o fanciulla. -
E quando pel fosco piano cui plumbeo il cielo incombe
divampa la fiamma ribelle sospinta dal vento dell'odio
dell'odio doloroso delle moltitudini vinte
ed arde ogni giovane core e piange nell'aria fumosa
lo spasimo disperato, e suona l'urlo più alto
quando frementi si tendono gli archi di tutte le vite
esso tace o fanciulla.
E quando la mamma mi trae dalle aride ciglia una stilla
e quando la morte mi tocca, mi stringe il core convulso
e caldo m'ottenebra gli occhi il sangue di quanti ho amato
esso tace ancora o fanciulla.
E quando m'irride la folla e quando m'innalza la lode
e quando sfacciata mi sento la forza dei giovani anni
il cor mio tace o fanciulla un superbo infinito silenzio.
 

 Pasqua 1907

 




Senti Iolanda come è triste il sole
e come stride l'alito del vento -
passa radendo i vertici fioriti
un nembo irresistibile.
 

Senti, è sinistro il grido degli uccelli
vedi che oscura è l'aria
ed è fuliggine
nel raggio d'ogni luce e dal profondo
sembra levarsi tutto quanto è triste
e doloroso nel passato e tutte
le forze brute in fremito ribelle
contaminarsi irreparabilmente.
 

Scompose il nembo irreparabilmente
il tuo sorriso,
Iolanda, e mi percorse
con ignoto terrore il core altero. -
Che è questo che s'attarda insidioso
nel nostro sguardo allor che senza fine
immoto intenso dalle nere ciglia
arde di vicendevole calore?
Perché di fosca fiamma la pupilla
s'accende nel languore disperato?
Perché non ride amore
come rideva amico nelle tenui
sere di maggio?
È più forte, più forte
questa torbida fiamma di desio
e mentre tutto intorno a me precipita
mentre crolla nel vortice funesto
ogni affetto, ogni fede, ogni speranza
sbatte le rosse lingue e s'attorciglia
inestinguibile.
 

E più, e più, e più nel cielo tumido
arde l'ansia selvaggia e dolorosa
purché io sugga dai tuoi occhi il fascino
purché io senta le tue mani fremere
purché io colga alla tua bocca fervida
la voluttà infinita del tuo bacio
Ïolanda, e l'ebbrezza infinita. -
 

 Giugno 1907

 



Che ti valse la forte speranza, che ti valse la fede che non crolla
che ti valse la dura disciplina, l'ansia che t'arse il core
o mortale che chiedi la tua sorte, se dopo il tormento diuturno
se dopo la rinuncia estrema - non muore la brama insaziata
la forza bruta e selvaggia, se ancora nel tedio muto
insiste e vivo ti tiene; - perché tu senta la morte
tua ogni istante nell'ora che lenta scorre e mai finita
perché tu speri disperando e attenda ciò che non può venire
perché il dolore cieco più forte sia del dolore che vide
la stessa vanità di sé stesso? - Tu sei come colui nella notte
vide l'oscurità vana ed attese da dio chiedendo la divina luce
e d'ora in ora il fiero cuor nutrendo
di più forte volere e la speranza
esaltando più viva, quando il giorno
con la luce pietosa
alla vita mortale
ogni cosa mortale riadulava
non ei si scosse che con l'occhio fiso
vedeva pur la notte senza stelle. -
Come il tuo corpo che il sole accarezza
gode ed accoglie avido la luce
perché non anche l'animo rivolgi
ai lieti e cari giochi? Vedi intorno
fin dove giunge il guardo, la campagna
ride alla luce amica
 




Amico - mi circonda il vasto mare
con mille luci - io guardo all'orizzonte
dove il cielo ed il mare
lor vita fondon infinitamente. -
Ma altrove la natura aneddotizza
la terra spiega le sue lunghe dita
ed il sole racconta a forti tratti
le coste cui il mare rode ai piedi
ed i verdi vigneti su coronano.
E giù: alle coste in seno accende il sole
bianchi paesi intorno ai campanili
e giù nel mare bianche vele erranti
alla ventura. -
 

A me d'accanto, sullo stesso scoglio
sta la fanciulla e vibra come un'alga,
siccome un'alga all'onda varia e infida
φιλοβαθεία. -
S'avviva al sole il bronzo dei capelli
ed i suoi occhi di colomba tremuli
guardano il mare e guardano la costa
illuminata. -
Ma sotto il velo dell'aria serena
sente il mistero eterno d'ogni cosa
costretta a divenire senza posa
nell'infinito.
Sente nel sol la voce dolorosa
dell'universo, - e l'abisso l'attira
l'agita con un brivido d'orrore
siccome l'onda suol l'alga marina
che le tenaci aggrappa
radici nell'abisso e ride al sole. -
 

Amico io guardo ancora all'orizzonte
dove il cielo ed il mare
la vita fondon infinitamente.
Guardo e chiedo la vita
la vita della mia forza selvaggia
perch'io plasmi il mio mondo e perché il sole
di me possa narrar l'ombra e le luci -
la vita che mi dia pace sicura
nella pienezza dell'essere.
 

E gli occhi tremuli della colomba
vedranno nella gioia e nella pace
l'abisso della mia forza selvaggia -
e le onde varie della mia esistenza
l'agiteranno or lievi or tempestose
come l'onda del mar l'alga marina
che le tenaci aggrappa
radici nell'abisso e ride al sole. -
 

 Pirano, agosto 1908

 



Il canto delle crisalidi 
Vita, morte,
la vita nella morte;
morte, vita,
la morte nella vita.
 

Noi col filo
col filo della vita
nostra sorte
filammo a questa morte.
 

E più forte
è il sogno della vita -
se la morte
a vivere ci aita
 

ma la vita
la vita non è vita
se la morte
la morte è nella vita
 

e la morte
morte non è finita
se più forte
per lei vive la vita.
 

Ma se vita
sarà la nostra morte
nella vita
viviam solo la morte
 

morte, vita,
la morte nella vita;
vita, morte,
la vita nella morte. -

 



 Dicembre
 

Scende e sale senza posa
nebbia e pioggia greve e scura,
nella nebbia la natura
si distende accidiosa.
 

Goccia, goccia lieve chiara
va sicura al suo destin
scende e spera, e vanno a gara
altre gocce senza fin.
 

Giù l'attende terra molle
dove all'altre unita va
a formar le pozze putride
per i campi e le città.
 

Nella pozza riflettete
gocce unite in società
grigio in grigio terra e cielo
per i campi e le città.
 

Ma la noia il disinganno
fa le gocce sollevar
ed il bene che non sanno
van col vento a ricercar.
 

Dalle pozze dalle valli
sale il velo e in alto va,
non ha forma né colore
l'affannosa umidità.
 

Nella nebbia la natura
si distende accidiosa,
scende e sale senza posa
pioggia e nebbia fastidiosa.
 

 Vigilia di Natale 1909

 



 Nostalgia
 

Ma un vento lieto giù dalla montagna
invade la natura senza luce
che per pioggia e per nebbia si dissolve
e delle nubi oscure la continua
trama dirompe, e la diffusa nebbia
leva ed in lembi bianchi la sospinge
giocosamente;
e ride il sole volto ad occidente
ed i monti lontani e le colline
boscose e la pianura
risuscita ugualmente illuminando
nella lor gloria varia
delle ben note forme all'abitante.
Ma splendono più chiare e più serene
festevolmente,
poiché più luminosi si rimandan
i generosi a lor raggi del sole.
Riluce il monte e il piano
e il ciel riluce
di verde luce presso all'orizzonte,
e in alto nell'azzurro
l'ultime nubi fuggono ed il sole
con lieto riso
tinge di rosa gli orli alle fuggenti.
 

Ahi! come tutta la natura in breve
si rasserena
nella pacata luce,
e la pena passata e il lungo tedio
dei giorni grigi oblia: ché solo a gioco
s'era offuscata: ed or con nuovo gioco
si rinnovella
e rifulge più pura.
Ma il cor mi punge con tristezza amara
che il dì ripensa della gioia
e l'alba luminosa e la speranza
folle e sicura, quando
con lieto viso incontro al nuovo sole
levai il primo canto, e la sua luce
era certa promessa alla mia speme
- e le dolci figure del mio sogno
che appena avvicinate dileguaro
tristi, perch'io ver lor fervidamente
mi protendessi
e in me le volessi, me stesso in loro
tutto esaurire.
Voler e non voler per più volere
mi trattenne sull'orlo della vita
ad angosciarmi in aspettar mia volta
ed ai giucchi d'amore ed alle imprese
giovanili mi fece disdegnoso.
- A qual pro? Ma alla veglia dolorosa
una fiamma splendeva e la nutriva
una speme più forte.
Ché se al lieto commercio e del piacere
al giocondo convito l'imperioso
battere mi togliea del mio volere
impaziente, e mi togliea '1 fatale
precipitar dell'ora, nel futuro
pur m'indicava la mia ferma fede
un giorno ed una gioia senza fine
e l'affrettava.
Ahi, quanto pur m'illuse la mortal
mia vista che di fuor ci finge certo
quanto ci manca sol perché ci manca -
«vuoto il presente, vuoto nel futuro
senza confini ogni presente, placa
il voler tuo affannoso!
non chieder più che non possa natura!».
Ma il cor vive, e vuole, e chiede e aspetta
pur senza speme, aspetta e giorno ed ora
e giorno ed ora né sa che s'aspetta
e inesorabilmente
passano l'ore lente.
Così è fuggita e fugge giovinezza
ed i miei sogni e la speranza antica
nel mio cupo aspettar ancor ritrovo
insoddisfatti.
 

Che mi giova o natura luminosa
l'armonia del tuo gioco senza cure?
Ahi, chi il tuo ritmo volle preoccupare
rientrar non può nei tuoi eterni giri
ad ozïare
nel lavoro giocondo ed oblioso.
È suo destino attender senza speme
né mutamento,
vegliando, il passar de l'ore lente.
 

 Dicembre 1909 
 (antivigilia dell'anno nuovo)

 



 Marzo
 

Marzo ventoso
mese adolescente
marzo luminoso
marzo impenitente.
 

Marzo che fai tuoi giochi
con le nuvole in alto
e con l'ombra e le luci
dài mutevol risalto
alla terra stupita
 

alla terra intorpidita,
mentre dal seno le strappi
e le primole e le rose
e fresch'acque rigogliose
lieto fai rigorgogliare.
 

Ed il passero riscuoti
con la tua folle ventata
nella sua grondaia secca
nella siepe denudata.
 

Spazzi i portici e le calli
e la nebbia nelle valli
e la polvere degli avi
e i propositi dei savi
rompi e l'ombra delle chiese.
 

Ed il pavido borghese
che nell'essa porta il gelo
dell'inverno trapassato
e col corpo imbarazzato
geme il reuma ed il torpore,
che nel volto porta il velo
della noia ed il pallore
della diuturna morte,
si rinchiude frettoloso
si rinvoltola accidioso
e rincardina le porte.
 

Se lo scuoti e lo palesi,
marzo giovane pazzia,
la sua trista nostalgia
sogna il sonno di sei mesi.
 

Ei ti teme, dolce frate
marzo, terrore giocoso
ma tu passi vittorioso
sbatti gli usci e le impannate
con le tue folli ventate.
 

E la densa polve sveli
nel tuo raggio popolato
e sul legno affumicato
i vetusti ragnateli.
 

Poich'il termine al riposo
canti, marzo adolescente,
t'odia questa buona gente,
marzo luminoso.
 

Ma se t'odiano addormiti
nelle coltri riscaldate
ed i passeri impauriti
nelle siepi denudate,
t'ama il falco su nell'aria
che più agile si libra
nella tua ventata varia
e la sente in ogni fibra
lieto nella tua procella,
ché per lei si fa più bella
ché per lei si fa più pura
ai suoi occhi la natura.
 

Marzo mese luminoso
marzo adolescente
marzo mese irriverente
marzo ventoso.
 

 1° marzo 1910

 



  Aprile
 

 Che più d'un giorno è la vita mortale?
 Nubil'e brev'e freddo e pien di noia,
 die pò bella parer ma nulla vale. 

   PETRARCA, Triumphus Temporis
 

Il brivido invernale e il dubbio cielo
e i nembi oscuri che al novello amore
han fatto schermo della terra antica
dispersi a un tratto, al sol ride la terra
che d'erbe e fiori ancor s'è ricoperta
- se pur il ciel di nubi ancora svarii,
onde occhieggian le stelle nelle notti,
e nere fra il lor vario scintillare
traggan le lunghe dita pel sereno
che al piano oscuro ed ai profili neri
degli alberi dei monti si congiungono.
Ma nel cielo e nel piano, ma nell'aria,
ma nello sguardo della tua compagna
e nel pallido viso,
ma nel tuo corpo, ma per la tua bocca
canta ciò che non sai: la primavera.
 

Così mi tragge a me stesso diverso
e amor m'induce e desiderio, ancora
ch'io non sappia per che, pur fiduciosi.
Ché pur in me natura si nasconde
insidiosa e ignaro me sospinge.
Ahi, che mi vale, se pur fugge l'ora
e mi toglie da me sì ch'io non possa
saziar la mia fame ora qui tutta?
Ma solo e miserabile mi struggo
lontano e solo, anco s'a te vicino
parlo ed ascolto, o mia sola compagna.
Mentre di tra le dita delle nubi
a che occhieggian le stelle nel sereno?
Già trapassa la notte e nuove fiamme
leverà il sole ch'ei rispenga tosto:
passano i giorni e già sarà qui '1 verno
e il sol sorgendo pallido e incurante
farà fiorire il fango per le strade.
A che occhieggian le stelle nel sereno?
Qui bulica la terra e qui si muore,
cantano i galli e stridon le civette.
O gioia del novello nascimento,
o nuovo amore e antico!
O vita, chi ti vive e chi ti gode
che per te nasce e vive ed ama e muore?
Ma ogni cosa sospingi senza posa
che la tua fame tiene, e che nel vario
desiderar continua si trasmuta.
Di sé ignara e del mondo desiosa
si volge a questo e a quello che nemico
le amica il vicendevole disio,
nemica a quelli pur quando li ami
e ancora a sé per più voler nemica.
Così nel giorno grigio si continua
ogni cosa che nasce moritura,
che in vari aspetti pur la vita tiene -
ed il tempo travolge - e mentre viva
vivendo muor la diuturna morte.
 

Ed ancor io così perennemente
e vivo e mi tramuto e mi dissolvo
e mentre assisto al mio dissolvimento
ad ogni istante soffro la mia morte.
E così attendo la mia primavera
una ed intera ed una gioia e un sole.
Voglio e non posso e spero senza fede.
Ahi, non c'è sole a romper questa nebbia,
ma senza fine e senza mutamento
sta in ogni tempo intero ed infinito
l'indifferente tramutar del tutto.
 

Pur tu permani, o morte, e tu m'attendi
o sano o tristo, ferma ed immutata,
morte benevolo porto sicuro.
Che ai vivi morti quando pur sia vano
quanto la vita il pallido tuo aspetto
e se morir non sia che continuar
la nebbia maledetta
e l'affanno agli schiavi della vita -
- purché alla mia pupilla questa luce
che pur guarda la tenebra si spenga
e più non sappia questo ch'ora soffro
vano tormento senza via né speme,
tu mi sei cara mille volte, o morte,
che il sonno verserai senza risveglio
su quest'occhio che sa di non vedere,
sì che l'oscurità per me sia spenta.
 

 Notte 16-17 aprile 1910

 



 Giugno
 

Tutta la forza dal tuo seno, o terra,
il sole ha tratto che salendo avvampa,
e l'estate trionfa.
Due volte l'erba ti recise avaro
il prudente bifolco, e già le fronde
onde tutta t'ammanti,
per il continuo ardor si fan perdute.
Ed alla notte gli astri all'orizzonte
per i vapor rosseggiano più grandi
quasi la vita per più forza gravi
come un'aura di morte.
Ma se i fiori onde prossima l'aurora
del giorno estremo
anelava l'adolescente Aprile
vento estivo ha dispersi,
sotto le fronde si matura il frutto
e il bifolco gioisce.
Ahi, la promessa della primavera
in questo picciol frutto si rinserra
ed il tempo procede per il giro
d'altri inverni e di nuove primavere.
 

Ma alla notte sui vertici ricolmi
passa il nembo e pel cielo s'accavalla
la nera massa delle nubi, e lungi
livida luce rompe la tenèbra
e pei piani rivela in nuovo aspetto
messi ondeggianti ed alberi ricurvi
e pei monti corruschi nuove forme
ed in cielo più mondi e nuova vita
ogni volta diversa, mentre lungi
nuova voce rimbomba e intorno e in alto
si spande e ancor dai monti riecheggia.
E a destra e a manca e presso e da lontano
riappar la nuova luce, e come il cielo
nel diverso bagliore si trasmuta,
così la terra la livida faccia
in nuova congiunzion sembra mutare,
mentre presso e lontano, oscuro o chiaro
romba il nuovo fragore senza posa.
 

Qual nuova speme, anima solitaria,
qual si ridesta
al diffuso baglior speme sopita?
Dal diffuso baglior verrà la Luce
mai veduta? e dal rombo vorticoso
la Voce squillerà che non udisti?
Ecco la terra ancora si congiunge
coi nuovi mondi in alto,
e la striscia di fuoco ecco dirompe
la tenebra, ed io stesso abbacinato
nel vortice di fuoco sono avvolto.
Sospesa a quella luce è la mia vita
un attimo od un tempo senza fine,
che fra il lampo ed il tuono non si vive.
- Ora scoppia la vita e s'apre il frutto
del mio tanto aspettar, ora la gioia
intera e il possesso dell'universo,
ora la libertà ch'io non conosco,
ora il Dio si rivela, ora è la fine.
Ma scroscia il tuono che m'assorda... io vivo
e famelico aspetto ancor la vita.
Altri lampi, altri tuoni, ed il mistero
in benefica pioggia si dissolve.


 



 Risveglio
 

Giaccio fra l'erbe
sulla schiena del monte, e beve il sole
il mio corpo che il vento m'accarezza
e sfiorano il mio capo i fiori e l'erbe
ch'agita il vento
e lo sciame ronzante degli insetti. -
Delle rondini il volo affaccendato
segna di curve rotte il cielo azzurro
e trae nell'alto vasti cerchi il largo
volo dei falchi...
Vita?! Vita?! qui l'erbe, qui la terra,
qui il vento, qui gl'insetti, qui gli uccelli,
e pur fra questi sente vede gode
sta sotto il vento a farsi vellicare
sta sotto il sole a suggere il calore
sta sotto il cielo sulla buona terra
questo ch'io chiamo «io», ma ch'io non sono.
No, non son questo corpo, queste membra
prostrate qui fra l'erbe sulla terra,
più ch'io non sia gli insetti o l'erbe o i fiori
o i falchi su nell'aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso -
altro sole, altro vento e più superbo
volo per altri cieli è la mia vita...
Ma ora qui che aspetto, e la mia vita
perché non vive, perché non avviene?
Che è questa luce, che è questo calore,
questo ronzar confuso, questa terra,
questo cielo che incombe? M'è straniero
l'aspetto d'ogni cosa, m'è nemica
questa natura! basta! voglio uscire
da questa trama d'incubi! la vita!
la mia vita! il mio sole!
 

 Ma pel cielo
montan le nubi su dall'orizzonte,
già lambiscono il sole, già alla terra
invidiano la luce ed il calore.
Un brivido percorre la natura
e rigido mi corre per le membra
al soffiare del vento. Ma che faccio
schiacciato sulla terra qui fra l'erbe?
Ora mi levo, che ora ho un fine certo,
ora ho freddo, ora ho fame, ora m'affretto,
ora so la mia vita,
che la stessa ignoranza m'è sapere -
la natura inimica ora m'è cara
che mi darà riparo e nutrimento,
ora vado a ronzar come gl'insetti. -
 

 Sul S. Valentin, giugno 1910

 



 [Alla sorella Paula]
 

Come le rondinelle anno per anno
tornano al nido che le vide implumi,
così l'uomo nel giro dei suoi giorni
torna e ritorna al pensier della culla.
Ed ogni anno quel dì rifesteggiando
che alla fame, alla sete, che al dolore,
che alla vita mortale l'ha svegliato,
ogni anno in quel dì si riconforta
ad amar la sua vita.
E i parenti - che allor nel neonato,
nella creatura fragile impotente,
della speranza lor videro il frutto,
e con pavido amore a lui porgendo
quanto la vita dona a chi la chiede
del suo pianto si fecer velo agli occhi,
confidando che vesti e nutrimento
gli potessero far viver la vita,
- anno per anno poi rinnovellando
la speranza lontana ed il dolore
si fanno velo ancora agli occhi stanchi,
grazie porgendo a lui dell'esser nato,
perch'ei sia grato a lor della sua vita,
perché il muto dolore sia obliato
e la promessa vana ogni presente.
Ma l'augurio che ciò ch'ei mai non ebbe
pur un istante
promette in lunghi anni luminosi
dia la sua luce presa dal futuro
al giorno natalizio, e l'illusione
moltiplicando gli finga la fame
esser un bene e vita sufficiente
la diuturna morte.
E baci e doni e la mensa imbandita,
dolci parole in copia e dolci cose,
liete promesse e guardi fiduciosi
faccian chiara la stanza famigliare
facciano schermo alla notte paurosa...
 

Paula, non ti so dir dolci parole,
cose non so che possan esser care,
poiché il muto dolore a me ha parlato
e m'ha narrato quello che ogni cuore
soffre e non sa - che a sé non lo confessa.
Ed oltre il vetro della chiara stanza
che le consuete imagini riflette
vedo l'oscurità pur minacciosa
- e sostare non posso nel deserto.
Lasciami andare, Paula, nella notte
a crearmi la luce da me stesso,
lasciami andar oltre il deserto, al mare
perch'io ti porti il dono luminoso
... molto più che non credi mi sei cara.
 

 2 agosto 1910

 



Onda per onda batte sullo scoglio
- passan le vele bianche all'orizzonte;
monta rimonta, or dolce or tempestosa
l'agitata marea senza riposo.
Ma onda e sole e vento e vele e scogli,
questa è la terra, quello l'orizzonte
del mar lontano, il mar senza confini.
Non è il libero mare senza sponde,
il mare dove l'onda non arriva,
il mare che da sé genera il vento,
manda la luce e in seno la riprende,
il mar che di sua vita mille vite
suscita e cresce in una sola vita.
 

Ahi, non c'è mare cui presso o lontano
varia sponda non gravi, e vario vento
non tolga dalla solitaria pace,
mare non è che non sia un dei mari.
Anche il mare è un deserto senza vita,
arido triste fermo affaticato.
Ed il giro dei giorni e delle lune,
il variar dei venti e delle coste,
il vario giogo sì lo lega e preme
- il mar che non è mare s'anche è mare.
Ritrova il vento l'onda affaticata,
e la mia chiglia solca il vecchio solco.
E se fra il vento e il mare la mia mano
regge il timone e dirizza la vela,
non è più la mia mano che la mano
di quel vento e quell'onda che non posa...
Ché senza posa come batte l'onda
ché senza posa come vola il nembo,
sì la travaglia l'anima solitaria
a varcar nuove onde, e senza fine
nuovi confini sotto nuove stelle
fingere all'occhio fisso all'orizzonte,
dove per tramontar pur sorga il sole.
Al mio sole, al mio mar per queste strade
della terra o del mar mi volgo invano,
vana è la pena e vana la speranza,
tutta è la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di sé stessa in un punto faccia fiamma.
 

 Pirano, agosto 1910

 



Ognuno vede quanto l'altro falla
quando crede passar filo per cruna,
pur spera ognuno d'infilar sua cruna,
né perché più s'avveda dell'inganno
meno ritenta ancora la fortuna.
Che tale è la sua sorte:
col suo filo sperar vita tramare
e con la speme giungere alla morte.
 




Non è la patria
il comodo giaciglio
per la cura e la noia e la stanchezza;
ma nel suo petto, ma pel suo periglio
chi ne voglia parlar
deve crearla. -
 





È il piacere un dio pudico,
fugge da chi l'invocò;
ai piaceri egli è nemico,
fugge da chi lo cercò.
 

Egli ama quei che non lo invoca,
egli ama quei che non lo sa;
e dona la sua luce fioca
a chi per altra luce va. -
 

Chi lo cerca non lo trova,
chi lo trova non lo sa;
il suo nome mette a prova
questa fiacca umanità. -
 

È il piacere l'Iddio pudico
ch'ama quello che non lo sa:
se lo cerchi se' già mendico,
t'ha già vinto l'oscurità. -
 





Per ora a bordo non è lavorare
che inerte pende la vela
e il vento tace sul mare
e il mar è a specchio del cielo
Per ora - a bordo non è lavorare
 

A sera il sole calerà nel mare
che senza nubi è il cielo
e giù ai confini del mare
l'orizzonte è senza velo
A sera - il sole calerà nel mare
 

Oggi sul ponte dolce riposare
che senza moto la nave
riposa il riposo del mare
e non si può camminare
Oggi sul ponte dolce riposare
 

Sola sul dorso del mare
nel mezzo del cerchio lontano
sta sotto il ciel meridiano
la nave a galleggiare
 



 [I figli del mare]
 

Dalla pace del mare lontano
dalle verdi trasparenze dell'onde
dalle lucenti grotte profonde
dal silenzio senza richiami -
Itti e Senia dal regno del mare
sul suolo triste sotto il sole avaro
Itti e Senia si risvegliaro
dei mortali a vivere la morte.
Fra le grigie lagune palustri
al vario trasmutar senza riposo
al faticare sordo ansioso
per le umide vie ritorte
alle mille voci d'affanno
ai mille fantasmi di gioia
alla sete alla fame allo spavento
all'inconfessato tormento -
alla cura che pensa il domani
che all'ieri aggrappa le mani
che ognor paventa il presente più forte
al vano terrore della morte
fra i mortali ricurvi alla terra
Itti e Senia i principi del mare
sul suolo triste sotto il sole avaro
Itti e Senia si risvegliaro. -
 

Ebbero padre ed ebbero madre
e fratelli ed amici e parenti
e conobbero i dolci sentimenti
la pietà e gli affetti e il pudore
e conobbero le parole
che conviene venerare
Itti e Senia i figli del mare
e credettero d'amare.
E lontani dal loro mare
sotto il pallido sole avaro
per il dovere facile ed amaro
impararono a camminare.
Impararono a camminare
per le vie che la siepe rinserra
e stretti alle bisogna della terra
si curvarono a faticare.
Sulle pallide facce il timore
delle piccole cose umane
e le tante speranze vane
e l'ansia che stringe il core.
 

Ma nel fondo dell'occhio nero
pur viveva il lontano dolore
e parlava la voce del mistero
per l'ignoto lontano amore.
E una sera alla sponda sonante
quando il sole calava nel mare
e gli uomini cercavano riposo
al lor ozio laborioso
Itti e Senia alla sponda del mare
l'anima solitaria al suono dell'onde
per le sue corde più profonde
intendevano vibrare.
E la vasta voce del mare
al loro cuore soffocato
lontane suscitava ignote voci,
altra patria altra casa un altro altare
un'altra pace nel lontano mare.
Si sentirono soli ed estrani
nelle tristi dimore dell'uomo
si sentirono più lontani
fra le cose più dolci e care.
E bevendo lo sguardo oscuro
l'uno all'altra dall'occhio nero
videro la fiamma del mistero
per doppia face battere più forte.
Senia disse: «Vorrei morire»
e mirava l'ultimo sole.
Itti tacque, che dalla morte
nuova vita vedeva salire.
E scorrendo l'occhio lontano
sulle sponde che serrano il mare
sulle case tristi ammucchiate
dalle trepide cure avare
«Questo è morte, Senia» - egli disse -
«questa triste nebbia oscura
dove geme la torbida luce
dell'angoscia, della paura.
 

Altra voce dal profondo
ho sentito risonare
altra luce e più giocondo
ho veduto un altro mare.
Vedo il mar senza confini
senza sponde faticate
vedo l'onde illuminate
che carena non varcò.
Vedo il sole che non cala
lento e stanco a sera in mare
ma la luce sfolgorare
vedo sopra il vasto mar.
Senia, il porto non è la terra
dove a ogni brivido del mare
corre pavido a riparare
la stanca vita il pescator.
Senia, il porto è la furia del mare,
è la furia del nembo più forte,
quando libera ride la morte
a chi libero la sfidò».
 

Così disse nell'ora del vespro
Itti a Senia con voce lontana;
dalla torre batteva la campana
del domestico focolare:
«Ritornate alle case tranquille
alla pace del tetto sicuro,
che cercate un cammino più duro?
che volete dal perfido mare?
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
e nessuna cosa vince la morte.
Ritornate alla via consueta
e godete di ciò che v'è dato:
non v'è un fine, non v'è una meta
per chi è preda del passato.
Ritornate al noto giaciglio
alle dolci e care cose
ritornate alle mani amorose
allo sguardo che trema per voi
a coloro che il primo passo
vi mossero e il primo accento,
che vi diedero il nutrimento
che vi crebbe le membra e il cor.
Adattatevi, ritornate,
siate utili a chi vi ama
e spegnete l'infausta brama
che vi trae dal retto sentier.
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
nessuna forza vince la morte».
 

Soffocata nell'onda sonora
con l'anima gonfia di pianto
ascoltava l'eco del canto
nell'oscurità del cor,
e con l'occhio all'orizzonte
dove il ciel si fondeva col mare
si sentiva vacillare
Senia, e disse: «Vorrei morire».
Ma più forte sullo scoglio
l'onda lontana s'infranse
e nel fondo una nota pianse
pei perduti figli del mare.
«No, la morte non è abbandono»
disse Itti con voce più forte
«ma è il coraggio della morte
onde la luce sorgerà.
Il coraggio di sopportare
tutto il peso del dolore,
il coraggio di navigare
verso il nostro libero mare,
il coraggio di non sostare
nella cura dell'avvenire,
il coraggio di non languire
per godere le cose care.
Nel tuo occhio sotto la pena
arde ancora la fiamma selvaggia,
abbandona la triste spiaggia
e nel mare sarai la sirena.
Se t'affidi senza timore
ben più forte saprò navigare,
se non copri la faccia al dolore
giungeremo al nostro mare.
 

Senia, il porto è la furia del mare,
è la furia del nembo più forte,
quando libera ride la morte
a chi libero la sfidò». -
 

 Carsia, 2 settembre 1910

 


 [A Senia]
 

I
 

Le cose ch'io vidi nel fondo del mare,
i baratri oscuri, le luci lontane
e grovigli d'alghe e creature strane,
Senia, a te sola lo voglio narrare.
Ché a brevi fiate nel tempo passato
nel fondo del mare mi sono tuffato.
A dare or la patria all'esule sirena,
la patria a me stesso e all'uomo abbattuto
svelare la via del suo regno perduto,
mi voglio tuffare con più forte lena,
che ogni uom manifeste le tenebre arcane
conosca e vicine le cose lontane.
 

Ma quel che già vidi nel fondo del mare,
i baratri oscuri, le luci lontane
e grovigli d'alghe e creature strane,
Senia, a te sola lo voglio narrare.
 


II
 

Da te lontano, nelle notti insonni,
innanzi agli occhi dove anche io miri,
sempre ho lo slancio della tua persona
come il vento la trae della passione
e la faccia raccolta che la fiamma
nel tempo stesso vela e manifesta.
Ma se l'occhio distolgo dalla strada
arida e sola che percorro oscura
e alla diafana luce lo rivolgo
dell'imagine tua cara e lontana,
invano cerco a me farla vicina,
invano cerco trattenerla, invano
tendo le braccia: nella notte oscura
non anche io l'ho mirata ed è svanita.
E l'occhio stanco e ardente la tenèbra
pur mira densa e inesorata quale
si chiuse innanzi all'antico cantore
che a Euridice si volse ed Euridice
nella notte infernale risospinse.
Spenta ogni luce allora ed ogni via
sbarrata, allor più presso la tenèbra
mi stringe sì che il cuor ignoto orrore
m'invade, non per me se nella notte
solo io soccomba, ma per te, o compagna
forte e sicura - che pel mio piacer,
per la mia debolezza, il mio sostare
non t'abbia risospinta nella stretta
della diuturna sofferenza inerte.
 

Perciò se freddo e ruvido io ti sembri,
ma tu lo sai: è per vieppiù andare,
è per nutrir più vivida la fiamma,
perché un giorno risplenda nella notte,
perché possiamo un giorno fiammeggiar
liberi e uniti al porto della pace.
 

 9 settembre 1910
 


III
 

Non sorridente sotto il sole estivo,
la faccia luminosa e gli occhi chiari
nel doppio raggio del sole e del mare -
non melodiosa in tutta la persona
nel ritmo della danza, o fiduciosa
nell'infuriar dell'onde, come quando
a me che ti chiedevo rispondevi:
«Per me non è mai tempo di tornare,
chi va sicuro non potrà affogare»,
né sbattuta dall'onda musicale
quando senza velami dai tuoi occhi
l'anima fiammeggiava e la tua vita
nelle dita sicure era raccolta -
non più così la creatura del sole,
il fiore della vita, la sorgente
ond'io le labbra asciutte dissetava,
la giovinezza quale altrove invano
per le vie della terra ho ricercata -
non più così ti vidi nel mio sonno,
quando la trama più si fa sottile
e all'anima più pura inverso l'alba
rivela il sogno le cose lontane.
Ma ripiegata in piccolo sedile,
come un uccello che ferito a morte
l'ultima vita con l'ali ripara,
d'un velo bianco ti facevi schermo
al freddo e alla vicina fredda morte;
e in faccia era svanito ogni colore,
ogni scintilla spenta, e nelle occhiaie
oscure gli occhi t'eran fatti cavi.
Io ti parlavo e tu non rispondevi,
ma pur col bianco vel t'adoperavi
di riparare l'ultimo calore.
T'ero vicino e tu non mi vedevi,
ma nella morte già eri raccolta
ed alla morte come ad un riposo
stanca le membra e i veli disponevi,
con moto lento, come di chi ascolta
d'una squilla lontana il misterioso
annunzio noto, ch'altri non intende.
 

Così m'eri distolta e la mia vita
invano sanguinava per ridare
a te la vita che s'era partita:
con le mani non ti potea scaldare,
con la voce non ti potea svegliare.
Come da lungi nel plumbeo mare
che si fonde col cielo vela bianca
non più in mare che in cielo navigare
sembra, così pur l'anima tua stanca
era già della morte ed era in vita,
t'era fatta la vita sol dolore,
poiché in te la passione era svanita,
ma sulla faccia il pallido terrore
t'era dipinto e t'era chiuso il core.
 

Ahi, non questa sognammo amara morte
nel suo pallido aspetto pauroso,
questa che va a picchiar tutte le porte
e ai morti dalla nascita il riposo
finge nel tempo eterno e tenebroso,
ma la giovane morte che sorride
a chi per la sua cura non la teme,
la morte che congiunge e non divide
la compagna e il compagno e non li preme
con l'oscuro dolore - ma che insieme
li accoglie nel suo seno, come il porto
di pace chi ha saputo navigare
nel mar selvaggio, nel deserto mare,
che a terra non s'è vòlto per conforto.
 

Rimprovero m'è il sogno e non spavento,
perch'io m'attardo mentre tu languisci;
s'io vinco certo così non perisci.
Questo sogno m'è sferza all'ardimento.
 

 10 settembre 1910
 


IV
 

Dato ho la vela al vento e in mezzo all'onde
del mar selvaggio, nella notte oscura,
solo, in fragile nave ho abbandonato
il porto della sicurezza inerte.
Al mare aperto drizzata ho la prora
per navigare, ed alla sorte oscura
la forza del mio braccio ho contrapposta.
Non ho temuto il vento avverso e l'onda
canuta, né la mensa famigliare
e l'usato giaciglio
ho rimpianto o il commercio delle care
e dolci cose. Né deserto e triste
m'è apparso il mar sonante nella notte,
anzi la voce sua come un appello
mi sonò in cor della mia stessa vita;
mi parve dolce cosa naufragare
nel seno ondoso che col ciel confina,
né temuta ho la morte...
 

Alla punta del golfo donde il mare
s'apre libero e vasto senza fine
tu m'attendi sicura e fiduciosa,
le vesti al vento, ritta sullo scoglio.
Costeggiar mi conviene la scogliera
per uscire dal golfo, quindi uniti
navigheremo, poiché a me t'affidi:
sì breve tratto da te mi divide
e dal libero mar sì breve tratto!
- Ma perch'io tenti la bordata e tenda
la vela al vento, pur l'inerte chiglia
non fende l'onda, ch'ora sulle creste
spumanti, or negli abissi, or sur un bordo
or sull'altro la trae senza riposo.
E se l'albero gema, se la scotta
a spezzarsi si tenda, e nella vela
ingolfandosi il vento il mio naviglio
minacci di sommergere, pur sempre
alla stessa distanza io mi ritrovo
dalla punta agognata. Col timone
io m'adopero invano al mare aperto
dirizzare la prora: a chiglia inerte
il timone non giova.
 

Il vento e l'onde intanto lentamente
come un rottame verso la scogliera
mi spingono a rovina senza scampo.
Ch'io debba naufragar senza lottare
fra la miseria dei battuti scogli,
presso al porto esecrato, come un vile,
senza esser giunto al mare, e te lasciando
sola e distrutta dopo il sogno infranto
fra le stesse miserie?
 

 Gorizia, 15 settembre 1910

 

V

Se mi trovo fra gli uomini talvolta,
qualunque cosa io parli, la mia voce
mi par che solo il nome tuo richiami.
Io taccio allora e aspetto trepidando
ch'altri con bocca impura a questa voce
risponda, e del mio bene ascoso mi discorra;
e se pur d'altre cose memorando
mi parlano con voce indifferente,
ma nel loro sorriso, ma negli occhi
mi par d'intravedere ch'altra cosa
vogliono dire, che nel cor profondo
sì mi ferisce. Che da ogni mio gesto,
che dal volto mi par ch'altri mi legga
il pensiero di te che sei lontana.
Dal commercio degli uomini rifuggo
allora alla campagna solitaria
o alla mia stanza solitaria e solo
tutto in me mi raccolgo; ma nell'aria,
nel canto degli uccelli e nell'uguale
mormorare dell'acqua, dalle ripe
alte del fiume e pur dalle pareti
della mia ignuda stanza, a piena voce
il tuo nome riecheggia al mio silenzio,
sì che palese a ognuno e manifesta
del tutto, al volgo preda senza schermo,
parmi l'anima mia nel suo segreto.
Ed il sogno che nasce palpitante,
la «storia» che non soffre le parole
ma vuol esser vissuta, il più profondo
e caro senso della nostra vita,
che pur uniti e soli sotto il velo
di parole comuni nascondiamo,
d'atti comuni, con gelosa cura
nascondiamo a noi stessi, ora del volgo
mi par fatto preda contaminata.
 

Nei giorni del dolore e nelle notti
senza riposo, nella valle triste
della sorda fatica e del tormento
senza speranza, nel mio dubitare
cieco, quando l'abisso dell'inerzia,
dell'abbandono m'era aperto ai piedi,
allor fioca scintilla io l'allevava
il mio sogno lontano, ancor ch'io fossi
d'ogni certa speranza privo al tutto;
ma da quello una vena mi fluiva
di forza che nel mezzo delle cose
vane e volgari, delle ottuse cure,
indifferente mi facea e sicuro,
e al dolor mi temprava e ogni timore
del mio stesso soffrir, ogni ricerca
di premi, di riposo, di conforto
ogni viltà dal cuore mi toglieva.
Dal più profondo della mia distretta,
nella mente più oscura quella fiamma
mi era sorta, caduta ogni speranza,
e la risposta al tanto faticare
di richieste alla vita per lei chiara
mi rifulgeva: «Non chieder più nulla,
sappi goder del tuo stesso dolore,
non adattarti per fuggir la morte;
anzi da te la vita nel deserto
fatti - che sia per gli altri nuova vita;
non disperare, ma rinuncia ai vani
aspetti della vita, e nel deserto
sarai tranquillo: dalla tua rinuncia
rifulgerà il tuo atto vittorioso,
ΑΡΓΙΑ sarà il tuo porto Ι'ΕΝΕΡΓΕΙΑΣ».
 

E sentii la mia vita fiammeggiare
ed il deserto farsi popoloso,
credetti fosse giunto il luminoso
mio giorno nella notte e consumare
quella fiamma mi parve la mia vita.
Ma per più lunga strada il mio destino
mi volse a far cammino: e vivo ancora
mi trovai nel fittizio riposo,
ma a te vicino per più forte andare;
in te concreta vidi la mia fiamma,
in te il mio sogno fatto era vicino
e la mia vita più certa: ogni ritorno,
ogni vile riposo, ogni timore
era morto per me. - Nel mare ondoso,
sulla brulla costiera solitaria,
sotto la forte quercia, a me vicina
io t'ho sentita siccome nel sogno. -
Non Argia ma Senia io t'ho chiamata,
per non sostar nel facile riposo,
e la lingua la fiamma consacrata
con le parole non contaminò.
Pur or mi trovo ancora nella nebbia
e il camminar m'è vano e la fatica
novellamente mi si fa penosa.
Io sento me da me fatto diverso,
se pur vicina ti sento lontana
ancora come un tempo, e la mia fiamma
geme che pur rifulse nella notte
per sua forza, sicura. Nelle tante
piccole e vane cose nuovamente
io mi dissolvo; nell'oscuro giro
della diuturna noia il nostro sogno
parmi tradito e per ignote voci
con parole di scherno messo a nudo,
pesato, misurato, confrontato…
Come se ignote mani il focolare
andassero scrutando ingordamente,
e alle ceneri insieme le faville
disperdessero al vento...
 

L'angoscia di non giungere alla vita
e di perire dell'oscura morte
te trascinando nell'abisso, Senia,
mi prende forte sì che dubitoso
mi son fatto di me, che non sopporto
le mie stesse parole, e di me stesso
invincibile nausea m'opprime.
 

 Gorizia, 19 settembre 1910
 


VI
 

Ti son vicino e tu mi sei lontana,
mi guardi e non mi vedi, o s'io ti parlo,
pur amando ascolti, non però m'intendi;
ti sono questo corpo e questi suoni,
ti sono un nome, ti son un dei tanti,
come un altro sarebbe
che per nome e per vista conoscessi.
Io non sono per te «io», la mia vita,
io, questa mia volontà più forte,
Il mio sogno, il mio mondo, il mio destino.
Io non sono per te: questo mio amore
disperato e lontano e doloroso
- gli passi accanto e non lo senti amare.
Ma ancor fra gli altri uomini t'aggiri,
con questo parli ed a quello t'affidi,
fra lor vivi e per lor, s'anco a nessuno
dai la tua speme intera e la fiducia.
Ma fra l'oggi e il domani e questo e quello
ti dissolvi, e trapassi senza sole
la tua selvaggia e forte giovinezza,
e la tua speme consumando ignara
sei di te stessa - ed io mi struggo invano.
Mentre mi vince gelosia crudele
non pur di questo giovane e di quello
cui lo sguardo concedi o la parola,
ma d'ogni cosa che ti sia vicina,
ma del sole, dell'aria, ma del pane,
ché di loro ti nutri e a me sei tolta;
gelosia d'ogni giorno, d'ogni istante,
che vivi, che non vivi di me solo,
che l'aria e il pane e il sole, che ogni cosa,
che il mondo intero, che la vita stessa
vorrei esser per te - ma tu l'ignori.
 


VII

Parlarti? e pria che tolta per la vita
mi sii, del tutto prenderti? - che giova?
che giova, se del tutto io t'ho perduta
quando mia tu non fosti il giorno stesso
che c'incontrammo? Che se pur t'avessi
ora, vincendo, mia per il futuro,
mia per diritto, mia per tuo volere,
mia non saresti più che non sei ora,
mia non saresti più che s'altra mano
ti possedesse. Che pur del mio corpo
sarei geloso come or son d'altrui.
Non più sarei per te la vita intera
ch'ora non sono, se già in me non l'ami:
ma se in me non l'ami, se tua vita
crear non so della mia vita stessa,
che più giova sperar, che più volere,
che mi giova la vita e il mio dolore
e questo amor lontano e disperato?
Fatto sono da me stesso diverso
che centra il fato mi dicevo forte,
poiché ho esperta e ancor vivo ad ogni istante
nella tua indifferenza la mia morte.
Né più mi giova mendicare i giorni
né chieder altro più dal dio nemico,
se non che faccia mia morte finita.



 


All'Isonzo

Dalle nevose gole, dai torbidi
monti lontani con lena rabida,
con aspro sibilo soffia la raffica,
rompe la densa greve nebbia,
stringe le basse grigie nubi
e le respinge in onde gravide.


Passa radendo sui pioppi tremoli
- sul nero piano incombe il peso
della ciclopica lotta dell'etere.
Ma a lei più forte risponde l'impeto
selvaggio e giovine del fiume rapido
cui le corrose ripe trattengono:
il suo possente muggito al sibilo
della procella commesce e il vivido
chiaror del lontano sereno
riflette livido, nell'onda torbida.


E al mar l'annuncio porta della lotta
che nebbia e vento nel ciel combattono,
al mar l'annuncio porta del tumulto
che in cor m'infuria quando la nausea,
quando il torpore, il dubbio, l'abbandono
per la tua vista, Argia, più fervido
l'ardir combatte e sogna il mare libero.


 Notte del 22 settembre 1910